Coltivo un filo di seta
mi è testimone il mare coi suoi gabbiani,
oppure al parco una Lachesi pensierosa
dal volto di gazza,
e alberi,
pochi,
ed alcuni cespugli,
molte formiche ed insetti a fiondate.
Coltivo un filo di seta.
Avvolgo e sdinapo
anche quando si occulta nel cupo
dei più neri cunicoli delle mie viscere
o ai miei tendini induriti si aggroviglia
in mortiferi labirinti dei miei blocchi.
Oppure,
inerte dei miei limiti si atrofizza
nei falsi lucori che tengo,
privati e agli occhi di una pubblica piazza.
Coltivo un filo di seta.
No.
Non lo taglio,
non lo disperdo,
almeno provo a non lasciarlo,
per nessun illecebro paradiso,
per nessuna illusione di riparo,
in marci eremi di violenza,
truccata nel fortilizio dell’efficacia pretesa,
o nel cretto del combattimento della scienza
e della bugia dell’autodifesa.
Coltivo un filo di seta.
Questo filo,
che è mio e non mi appartiene,
mio del tutto da quando mi è stato donato
passando per molte mani tramandato
da occhi lontani di oliva
in orbite di mandorla viva.
Coltivo un filo di seta.
In due parole in cosa consiste?
Al primissimo albiccare,
muoversi praticando intensamente
portar l’intenzione al presente
il respiro al ventre
la forza nei polpastrelli,
spostare il peso e ruotare
piacere inspiegabile di una pratica antica,
segreta fatica
del coltivare un filo di seta.