Risalire e guizzare
del salmone nel fiume
il pensiero ed il senso della vita
passando
nel paesaggio mio specchio.
Vagare di canneti e colli
campi e qualche casa
fra i miei occhi.
Scivolare città e centri urbani
non più piccoli di un paesello
ai margini di un verde
dalle mie ciglia.
Prendermi al volo di altri pensieri.
Portarmi altrove,
portarmi a me.
Accrescermi in forza ed ardore.
Ardere.
Questo preziosissimo acconto
del prestito di vita
di cui io rispondo,
in cui io sono,
di cui io ho
libero arbitrio.
Ogni testo
ha nel senso molteplici possibilità,
è un apparato trans-linguistico,
è una intertestualità
i cui codici – o sequenze
possono essere visti
come altrettanti trasformazioni
di altri codici di testi.
Ogni scritto,
ogni testo,
non può essere pensato
come espressione di realtà
ad esso esterna, da essa scollegato,
ma come parte della totalità
del testo che di scriversi
non cessa mai.
Mentre scrivo
si scrive di me altrove,
ed io in altro luogo sono raccontato,
dalla mia ombra sono proiettato,
tracciato in percorsi,
che non ho mai compiuto,
disegni altri di me
tracciati da angoli diversi:
io sono altro,
infinitamente altro.
Htilar Sitthu, o l’uomo dal villaggio di Shwe Sit Thee nel distretto di Meik-hti-lar, Tenente Colonnello delle Forze Armate del Myanmar, frequentò l’Università di Yangon che abbandonò senza aver completato i corsi.
Sin dal 1947 ha collaborato con numerosi giornali e riviste pubblicando le proprie poesie. La sua Antologia della poesia del Myanmar, “Me-guang-Myithma O Ywet-Wa-hnin Acha Kabya-mya – Oh foglia appassita del Fiume Mekong ed altre poesie” 1961, vinse il premio della Myanmar Translation Society nell’anno di pubblicazione.
Htilar Sitthu è poeta-soldato. Possiede un vocabolario ricchissimo ed è altamente competente nel plasmare il linguaggio. La sua attitudine verso la poesia tradisce lo studio dei classici: quale poeta maggiormente da Htilar Sitthu potrebbe rappresentare l’artista sensibile e vicino alla storia del Myanmar?
Le cose si incastrano,
si accaniscono,
si nascondono,
si bloccano:
le cose rimandano,
abbattono e ammazzano.
Tentano di farmi far tardi
più tardi di quel che già faccio.
Si nascondono e ridono.
Le stronze di cose le sento ridere
e già anche le vedo,
ma mica si fanno trovare!
E se anche le trovo
appena le tocco sanno sfuggire.
Vigliacche. Scappano,
oppure si aggrappano a qualcos’altro, e s’incagliano.
Si staglia una forza contro il mio tirare
a me, o lo spingere via delle cose più odiose,
come le icone cattoliche o le orchidee leggiadre
di quando un bel giorno è morto mio padre.
Le cose insopportabili piene di ipocrisia,
Questa cosa di cose sfinisce,
deruba ed innervosisce,
come i pini abbattuti alla caserma Vannucci.
Una cosa vigliacca sotto gli occhi di tutti.
Fatta sotto le feste,
davanti alle finestre.
Alla luce del sole a tagliare le teste.
I cittadini per primi collabora(lava)tivi
spettatori affacciati dai loculi abitativi.
Il viceassessore anche lui si è affacciato
dalla finestra del social da cui ha parlato,
si è interessato scrivendo, coi forse e “si spera”,
mentre cascavano fronde dalla mattina alla sera,
per cinque giorni, con la motosega vigliacca
che straziava la vita che ancora era intatta
che ancora attende
l’autorità che si masturba nelle troie rotonde.
In questa Dachau dietro via Settembrini
è toccato far gli ebrei ad una trentina di pini,
ma noi di – Livorno uber alles – cittadini,
pensiamo davvero che sia diverso
quando a decidere sono dei nostri bambini?
Il sindaco ingegnere?
L’ente giardini?
L’assessorato, la municipale e tutti gli affini?
Questa cosa di cose
mi abusa dentro,
corrompe qualcosa di mafioso degrado
(come fece il buon prete al vescovado)
queste cose vili mi fanno incazzare,
mi fanno odiare,
chi i diritti di un albero sa calpestare
anche quelli di un uomo sa trucidare.
Queste cose che abbattono
travestite da potatura,
hanno rubato vita alla natura.
Hanno rubato vita né mia né tua,
né dell’ente competente e della polizia sua,
vita che era stata affidata,
per esser protetta, se malata curata.
Questa cosa di cose assassine del vivente
mi violentano l’anima e mi stuprano la mente,
mi derubano del diritto di parlare e di fare,
mi hanno impedito d’impedir di ammazzare.
Su un foglio le sbatto queste cose vigliacche,
le lego a catene di significanti,
le ammaestro pietose come in un bel circo,
che ballucchino in rime,
abbattute da un punto alla loro fine.
Davanti agli occhi ho tutto questo mondo.
Gremito di esseri umani a frotte a frotte
che stazionano e s’impolverano inseguendo rotte
smarriti nel noto illusorio facondo
della polvere delle cose e delle strade
di nascite e rinascite in eterno girotondo
Non sanno a che cosa attendono,
Né come al guado giungeranno.
Davanti agli occhi ho tutto questo mondo.
La ricchezza formale non dura che qualche giorno,
gli affetti per troppo breve tempo vicini,
Puoi sempre possedere più di chi si ha d’intorno,
Non vale la povertà di dita e due mani,
che possano stringere lasciare toccare
trasmettere e ricevere affetto: amare.
si ama con mani oltre che la parola,
il tempo in cui ci è prestato esistere percola.
Davanti agli occhi ho tutto questo mondo.
Se anche possedessi libbre e libbre d’oro,
Non varrebbero questo brano di bosco. Nel profondo
del cuscino di nubi ed erba per ristoro.
Non varrebbero la libertà che ho della parola
e del disegno che alla mia anima risponde, a lei sola,
sono io mio, sono io il mio agglomerato,
non parte di un mercato o di una struttura
che m’investa la vita, tratto e scrittura.
Davanti agli occhi ho tutto questo mondo.
I pini mormorano alla gazza salterina,
ridacchia la gabbianella al gatto di sentinella,
attendono che dall’angolo arrivi ogni mattina
a nutrire tutti la vedova vecchiarella.
Corre corre.
Il mio sonno del treno,
il fasciarmi del paesaggio ben noto,
il pensiero ad altro,
il lasciare che scorra l’arazzo
del mio fratello conosciuto paesaggio,
sosia,
distesa mansueta.
Corre corre.
La mente divora la metafora.
Il significato.
Fulminea appartenenza a prima vista.
Corre corre.
Distanze e moto pasciono
e contemporaneementi rendono
invisibiliefermi
i(sotti
li)bruli
chiidivita.
Vita.
Nel bosco, nel fiume, nel cielo:
foglie, squame, frac di rondini.
Nelle cortecce:
gli occhi nocciola della bimba.
Corre corre.
Ripetersi di treno verso casa.
Casa.
Mi propizia il procedere del verso
alla quotidiana carezza
del mio Zenith:
casa,
ricongiungimento.
Corre corre.
Bevo il tramonto.
Gusto l’arancione, il rosa.
Sorseggio tutti quei viola,
in attesa di tremare con le stelle,
e mi mezzo del giorno che sciorina
l’acquasole del lenzuolo
di~stillato crepuscolo.
Corre corre.
Distinguo città vere
da ingannevoli assaggi di civiltà,
di umana profondità,
di senza suono e senza tatto.
O che almeno io sappia percepire.
Per altro io
sono
fatto vivo
per il gioco pericolosissimo della vita.